Triennale Milano
© Kim Albrecht

Gli Artificial Senses raccontati dal ricercatore Kim Albrecht

4 febbraio 2022
Le macchine, così vicine a noi
È impossibile immaginare la cultura contemporanea senza le macchine che ci circondano e che ci guidano tutto il giorno. I risultati delle ricerche su Google strutturano la nostra conoscenza, i mix che Spotify crea per noi modellano i nostri gusti musicali e i consigli di Amazon influenzano i nostri consumi.
Tutti questi sistemi ci si presentano attraverso interfacce accattivanti, che tuttavia offuscano la loro vera realtà.
Questo mondo insolito e inedito è diventato parte integrante della nostra vita in un arco di tempo molto breve. Le aziende che partecipano a  questa economia hanno sviluppato strategie che ci fanno percepire le nuove tecnologie come qualcosa di naturale.
 
“It just works” (funziona), amava ripetere Steve Jobs (Distelmeyer 2017; Moisescot 2009). L’Interface design è la disciplina che consente alle macchine di creare questa sensazione di naturalezza. Ma se vogliamo vivere con i dispositivi digitali e comprenderli a fondo, non possiamo fermarci al loro aspetto immediatamente accessibile. Dobbiamo imparare a capire in cosa le macchine differiscono da noi umani, e come culturalmente la tecnologia è sempre creata da noi.
Nell’era del Machine Learning e dell’intelligenza artificiale, non capire in che modo le macchine acquisiscono la conoscenza del mondo è rischioso. Come possiamo vivere e interagire con questi apparati alieni che introduciamo nelle nostre vite se l’unica cosa che conosciamo sono le interfacce artificiali che rendono questi dispositivi così vicini al nostro mondo?
 
L’interfaccia uomo-macchina cerca generalmente di essere il più possibile umana. In questa serie di opere, invece, le interfacce cercano di avvicinarsi il più possibile alla visione della macchina, creando immagini che appaiono difficili da interpretare per l’osservatore umano, ma che sono del tutto naturali per la macchina.
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Dalle immagini operative alle immagini di funzionamento
All’inizio degli anni 2000, il documentarista e artista Harun Farocki si è concentrato su un nuovo tipo di immagini, che ha chiamato “immagini operative”. Si tratta cioè di immagini che fanno parte di un’operazione tecnica, di un processo all’interno del quale  servono a svolgere un compito specifico (Distelmeyer 2017; Paglen 2014). Nel documentario Eye/Machine III (Farocki 2003), Farocki mostra come la macchina vede, come acquisisce la conoscenza del mondo e come si serve, a questo scopo, di immagini operative. Nella terza parte del video, per esempio, il regista analizza il processo attraverso cui un sensore laser esamina un ponte e il computer lo legge trasformandolo in un modello tridimensionale. La sequenza successiva mostra alcune risposte elaborate dalla macchina: una fotografia, un modello 3D, un’immagine satellitare con l’aggiunta di grafica e riprese aeree con  indicazioni prodotte dalla macchina stessa. Come sottolinea l’artista Trevor Paglen (Paglen 2014), il problema è che gli uomini utilizzano la vista, mentre la macchina non vede. La macchina calcola e basta. Non ha bisogno di immagini operative perché la sua assimilazione del mondo non dipende da elementi visivi. Le immagini che mostrano come la macchina vede si affidano sempre a un’interfaccia, un rilevamento che va dalla macchina al mondo umano, dalla comprensione del mondo attraverso il calcolo alla comprensione del mondo attraverso i sensi umani.

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Noi esseri umani abbiamo una vista molto sviluppata. Il nostro cervello dipende fortemente dall’elemento visivo. La macchina, al contrario, si basa sul sistema binario. I computer vedono il mondo attraverso la matematica. Di conseguenza, le immagini operative create dalle macchine sono invisibili alle macchine stesse.
Il rilevamento visivo, le linee e i riquadri che compaiono nelle immagini delle telecamere di videosorveglianza per il riconoscimento facciale sono elementi grafici che rimettono in gioco l’elemento umano, ma alle macchine non servono. Non sono immagini relative a un’operazione, perché le operazioni sono solo stringhe di numeri. La macchina non ha bisogno di immagini; le immagini sono solo un altro flusso di dati. La trasposizione dei dati in un rilevamento visivo serve solo come interfaccia per noi umani.
La visualizzazione dei dati è un terreno di compromesso tra due diversi tipi di esperienza, quella degli esseri umani e quella delle macchine. La matematica e i numeri su cui le visualizzazioni si basano vengono tramutati in forme che gli umani sono in grado di cogliere con il loro senso più sviluppato, la vista. Le visualizzazioni sono a loro volta immagini operative – immagini in funzione – con una causa e uno scopo, immagini utilizzate nell’ambito di un’operazione. Noi non apriamo l’app di navigazione sul telefono per ammirare la bellezza della mappa, ma per andare dal punto A al punto B, per compiere un’operazione. Non disegniamo un grafico a dispersione perché ci piace il grafico, ma per trovare outlier, individuare trend e dare un significato ai dati. A parte alcune eccezioni, le visualizzazioni aiutano in larga misura a spiegare o a esplorare dati, e a renderli umanamente leggibili e utilizzabili nell’ambito di un’operazione tra macchine e individui. Le immagini create nel corso di questo progetto evidentemente non fanno questo. Non sono cioè visualizzazioni finalizzate a un’operazione. Quel che fanno è tracciare il funzionamento delle macchine e renderlo visibile, in una maniera quanto più possibile vicina all’esperienza della macchina.
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I grafici qui presentati non sono “immagini operative” ma piuttosto “immagini di funzionamento”. Essi rendono visibile il funzionamento delle macchine, trasformandolo in qualcosa che siamo in grado di capire, ma su cui non necessariamente possiamo influire. Questo ribaltamento logico, di ciò che la visualizzazione può essere e potrebbe fare, apre nuovi percorsi nel campo. Anziché usare calcoli, dati e visualizzazione per osservare il mondo e capire la natura e la cultura, usiamo la visualizzazione per entrare nella macchina stessa, nella meccanica e nelle infrastrutture che ne consentono in primo luogo la creazione. Le immagini di funzionamento rendono visibile la macchina in un modo che è vicino alla sua meccanica. In altre parole, esse creano visualizzazioni che non sono umanizzate, non sono disegnate per essere il più possibile accessibili agli uomini, ma che sono quanto più possibile vicine all’input originale.
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Crediti
Bibliografia Distelmeyer, J., 2017. Machtzeichen. Farocki, H., 2003. Eye/Machine III [Auge/Maschine III], 63’. Farocki, H., 2012. Parallel I. Disponibile su: https://www.youtube.com/watch?v=Yzc3OPc8gUM. Moisescot, R., 2009. It just works. Seamlessly. Disponibile su: https://www.youtube.com/watch? v=qmPq00jelpc. Paglen, T., 2014. Operational Images, in “e-flux” n. 59. Disponibile su: http://worker01.e-flux.com/pdf/