Triennale Milano
cherry
Foto di Alessandro Villa

Fare circo oggi: intervista a Marina Cherry

2 febbraio 2024
Quando incontri Marina Cherry la vedi subito, riconosci lo sguardo, il guizzo, lo spirito arguto di chi sa di non doversi prendere troppo sul serio. La sua furbizia sta nel sottrarsi, come un’anguilla, a ogni tentativo di essere imbrigliata, o incatenata in qualche luogo, sia esso fisico o del pensiero. Si colloca da qualche parte, tra la danza, il circo contemporaneo e il teatro di movimento, consapevole che tutte queste categorie si dissolvono quando nelle sue creazioni le fonti si mescolano nel catalizzatore unico e principale: il corpo, il suo corpo, che sembra, letteralmente, senza ossa. Di Only Bones v. 1.6.(un numero non casuale) disarmano le innumerevoli gradazioni di temperatura che Cherry riesce a raggiungere: a ogni altezza e direzione che il suo corpo raggiunge, corrisponde un colore emotivo, un sussulto di disagio, un motto derisorio, un sorriso pudico. Eclettica e metamorfica, è in una trasformazione continua, dentro il moto perpetuo che trascende le convenzioni dell’intimità, trovando una gioia ironica, spudorata e libera, nella deformazione grottesca.
Foto di Alessandro Villa
Come sei arrivata qui dove sei ora?
Ho cominciato da ginnasta, facevo acrobatica e un po’ di danza. Poi ho incontrato il circo, forse un po’ tardi, non so, con una storia che è un po’ un cliché: ho visto Le Cirque du Soleil e ho pensato di voler fare proprio quella cosa lì: avevo quindici anni. Così mi sono trasferita a Montreal (ndr. Presso l’École Nationale de Cirque) ma non ho completato il percorso. Ho provato in seguito a Bruxelles (ndr. École supérieure des Arts du Cirque) ed è andata bene.

Foto di Alessandro Villa
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Cosa hai trovato di diverso nell’altra scuola?
La prima, Montreal, era troppo tecnica. Ero in un periodo di vita in cui stavo diventando adulta, come persona e come artista: avevo bisogno di trovare me stessa, ma non riuscivo a pormi le domande in un contesto fortemente eterodiretto come l’ENC. A Bruxelles si lavorava duramente (ndr. 10 ore al giorno per 6 giorni a settimana in media), ma ho potuto esplorare sentieri creativi, e non solo di tecnica fisica, nuovi. Per esempio, a Montreal mi avevano identificata come acro-dancer e attribuito un partner... era come un matrimonio combinato da altri, ma io volevo restare da sola!
Capisco, avevi bisogno che la tua individualità si esprimesse e non subisse l’istituzione. Forse non tutte le scuole ci riescono, dipende dai maestri oltre che dalla specifica impostazione didattica.
Certo, ma i maestri si possono trovare anche altrove, fuori dalla scuola. Io avevo bisogno di libertà di ricerca perché arrivavo al circo contemporaneo con un passato di solida tecnica ma con una scarsa consapevolezza della mia posizione rispetto all’arte circense e alla mia voce artistica. Ho potuto sperimentare a Bruxelles, ma la mia guida l’ho trovata altrove.
Foto di Alessandro Villa
Parli di Thomas Monckton? (ndr. performer e artista visivo neozelandese)
Ho incontrato Thomas facendo un provino per un altro spettacolo. Lui ha visto un potenziale in me e mi ha consegnato Only Bones.
Perché si chiama così?
Perché secondo le indicazioni, in scena e nel processo creativo deve esserci soltanto il corpo: al massimo una luce o un suono. Nessun oggetto o narrativa o riferimento testuale.
Non la trovavi troppo vincolante come indicazione?
È stata una sfida, ma ho scelto io di continuare nel solco del percorso cominciato da Thomas con Only Bones v. 1.0 e continuato da cinque persone prima di me (ndr. da qui Only Bones 1.6). Lui mi ha offerto produzione, spazi, consigli, ascolto, ma non ha mai imposto la sua visione: si è offerto di guidarmi mentre mi dava assoluta fiducia, perché ha creduto in me e nella mia visione artistica.
Foto di Alessandro Villa
Da dove è arrivata la tua ispirazione principale?
(ndr. Cherry fa un uso creativo e drammaturgico dei capelli e alterna elementi di contorsionismo a movimenti che rintracciano echi di clownerie) Tra brainstorming ed esito sono trascorsi quattordici mesi, e in studio, solo dedicandomi alla parte coreografica, ho passato circa tredici settimane. Provando a gestire le energie durante le prove mi sono ritrovata a giocare con dita e capelli (che sono un regalo!). Ho sentito di voler approfondire quella condizione fisica e che c’erano buone possibilità rappresentative a partire da lì. Inoltre, mi piace collezionare musiche folkloriste, poesie conturbanti, ma anche registrare suoni ovunque mi trovi, spesso li faccio partire in studio e assecondo quello che arriva da quella fonte. Qualcosa resta, qualcosa no.  
Ho apprezzato l’uso duplice che fai dei capelli: da seduttiva Berenice moderna a strega sabbatica, dissacri l’iconografia che da Bosch a Goya spesso accosta la bruttezza etica a quella estetica. Tu, invece, ti diverti nella deformità. 
Sì, mi sento molto libera lì dentro. Non ho paura del brutto, ho paura del conforme. Io non nascondo niente: ciò che è dentro viene fuori in modi sorprendenti e spesso controintuitivi. Ma c’è della bellezza nel fatto che la bruttezza sia una cosa tutta umana, e io non voglio cancellarla: scavo nel fondo di me stessa e porto all’esterno qualsiasi forma prenda quello che trovo.
Il posto più strano in cui ti sei esibita?
Decisamente lo Scalone d’onore di Triennale Milano! Sono abituata a posti più intimi (ndr. Only Bones è concepito dentro una “black box” di pochi metri quadri) e a pubblici piccoli: qui invece è stata una bella sfida. Le persone si muovevano, le luci erano ovunque: c’era un’energia speciale che ha animato la performance!
Di cosa hai più paura come giovane performer? 
Le cose stanno andando bene per fortuna, ricevo molte proposte in tutto il mondo: ho paura di dover dire di no, e magari qualche volta di pentirmi. Non accade quasi mai però, perché seguo l’intuito: sento subito se c’è affinità artistica e soprattutto umana, e questo per me conta più dei soldi o della fama!